Giovedì 14 novembre le classi seconde e terze della scuola secondaria si sono recate in auditorium per ascoltare la testimonianza di Alidad Shiri, un profugo afghano.
L’introduzione è stata fatta da Carlotta Sami, che ha parlato dell’agenzia che rappresenta, la UNHCR, ovvero l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, fondata dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e ha presentato brevemente il libro “Anche Superman era un rifugiato”, in cui dodici autori raccontano le storie di alcuni rifugiati, da loro intervistati.
Successivamente ha passato la parola ad Alidad, che ha portato la sua testimonianza.
Fino all’età di nove anni la sua vita era tranquilla infatti frequentava la scuola e viveva con la sua famiglia a Ghazni, dove suo padre, laureato, era funzionario politico e viveva sotto scorta.
Un giorno il padre morì a causa di una mina, posizionata in strada dai Talebani, esplosa al passaggio della sua auto. A partire da quell’episodio la sua vita cambiò radicalmente e dopo sei mesi perse anche la nonna, la mamma e la sorellina, sempre a causa di una bomba.
Alidad rimase con la zia, che lo incoraggiava a reagire perché lui stava sempre in casa e non voleva più fare nulla. Dopo solo un anno se ne andarono dall’Afghanistan perché era molto pericoloso, era un posto dove i bambini perdevano le braccia e i piedi a causa delle mine.
Scapparono così in Pakistan, dove rimasero per due anni, ma anche lì diventò pericoloso, quindi all’età di dodici anni Alidad fuggì da solo e dopo 24 giorni arrivò in Iran, a Teheran, dove un amico di famiglia lo ospitò. Non aveva possibilità di studiare, quindi andò subito a lavorare in fabbrica, anche se si vide costretto a farlo solo di notte perché non aveva i documenti.
Dopo aver guadagnato soldi a sufficienza, diede 900 dollari ad un trafficante iraniano per raggiungere la Turchia. Durante il viaggio con altri profughi raggiunse una montagna sulla quale sostò sette giorni e sette notti in quanto i trafficanti volevano altri soldi per continuare il viaggio; fortunatamente avevano cibo e acqua per sopravvivere.
Nonostante gli facessero molto male i piedi, decise di continuare da solo e arrivò a Istanbul; da qui per raggiungere la Grecia si affidò ancora ai trafficanti, vivendo esperienze traumatiche, viaggiando per molti giorni e bevendo acqua di mare per non morire.
Da Patrasso per raggiungere l’Italia aveva due possibilità: o viaggiare via mare, anche se la paura di morire era alta perché non sapeva nuotare o sotto un furgone; decise di proseguire il suo viaggio legandosi con una cinghia al semiasse di un tir per ben due giorni, durante i quali gridava e piangeva, anche se nessuno poteva aiutarlo.
Arrivato in Trentino, a Bressanone, scese dal camion, si incamminò lungo l’autostrada e dopo quattro ore fu fermato dai carabinieri; loro parlavano, ma lui non capiva cosa gli stessero dicendo allora lo portarono in caserma per l’identificazione e da quel momento non poté più lasciare l’Italia, altrimenti sarebbe stato considerato un clandestino.
In Italia ha incontrato molte persone che lo hanno aiutato: per i primi due anni visse in un centro per rifugiati poi si trasferì presso una famiglia tedesca con la quale vive tuttora, anche se all’inizio la comunità del luogo era piuttosto diffidente.
Alidad oggi studia filosofia politica all’università per poter poi tornare in Afghanistan a fare il giornalista e aiutare il suo popolo.
Al mondo ci sono circa 70,8 milioni di persone come lui, che scappano dai loro Paesi di origine per sfuggire alla guerra e a situazioni difficili che si vengono a creare.
Alla fine del racconto abbiamo avuto la possibilità di fargli molte domande sugli argomenti più vari.
Personalmente credo sia veramente difficile vivere in alcuni Paesi sconvolti dalle guerre e governati da regimi politici dittatoriali: non puoi fare una vita normale, hai paura ad uscire di casa, a dire quello che pensi e vestirti come preferisci, insomma è una situazione complicata, sia per gli adulti che per i bambini.
Penso che chi non ha mai provato a vivere in queste condizioni non possa capire veramente le motivazioni che spingono queste persone a rischiare la vita, intraprendendo viaggi impossibili per provare a condurre un’esistenza “normale”, in un Paese straniero, il più delle volte conosciuto solo attraverso la tv e che spesso crea false aspettative con il rischio di rimanere delusi e comunque sfruttati.
[Veronica, IIIC]